Dovrei dirlo che mi è stato espressamente richiesto di parlare di questo album? No, non dovrei, pare quasi scontato, ma lo faccio lo stesso, forse trasparenza, forse distacco.
Dovrei dirlo che presentare un lavoro del genere ad un cuneese sia un'idea pericolosa? Si, perchè passata l'ondata Catartica dei Marlene, i sopravvissuti della Granda hanno preso quanto lasciato da chi ,ormai famoso, si allontanava dalla provincia , raffinandone lo stile, contaminandone i gusti e imbastardendone i suoni.
Le Pietre Dei Giganti si presentano così facendo come un gruppo coraggioso e sicuro di sè (o forse solo ingenuo), con diversi punti a suo favore.
Con base a Firenze, nati nel 2016 dalla voglia di unire la passione dei vari componenti per i suoni stoner, pubblicano già nel primo anno di vita l'EP d'esordio "Fanno Male!", per poi partire con una buona attività live tra Toscana e Piemonte, sfociata nell'uscita di questo nuovo album.
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Perchè se è vero che un classico del genere sia proprio addentrarsi nel buio del proprio essere. per scandagliare qualsiasi illogica tragedia dell'anima, è anche vero che non sono argomenti da trattare con leggerezza.
Troppe volte la mancanza di tatto da parte dei classici inesperti del settore finisce con il frastornarti trasmettendo un senso di noia causato da lunghi discorsi triti e ritriti, portati avanti con continui luoghi comuni, scritti senza garbo in criptici linguaggi pseudo intellettuali.
Ma con loro questo problema non si pone. Finalmente qualcuno si decide di scendere a compromessi bilanciando l'onirico di suggestioni e ricordi personali ad una serie di situazioni condivisibili con l'ascoltatore, riuscendo, grazie a questa peculiarità, ad instaurare una prima linea di dialogo separata dai suoni, dalla melodia, dal tempo musicale e qualunque altra intangibile variabile .
É a corollario di ciò che le musiche si fanno le monarche "dell'altro", ponendo il proprio obbiettivo nella sottesa missione di guidare il volgersi continuo degli animi dei pezzi. Pur provando in molti punti ad emergere stilisticamente la stesura finisce per cadere un po' piatta, anche quando è chiaro lo spunto solistico, ora di una chitarra a partorire fraseggi per bridge con qualche nota di troppo ("Mattine Grigie"), ora nelle parentesi di batteria a ritmare riff stoner nudi e crudi. Tuttavia, nell'economia generale del progetto, questi elementi finiscono con l'essere efficaci, qualcosa in questa violenta calma piatta riesce a tenere incollato l'ascoltatore, nascondendo pian piano quelle pieghe dolenti che in altri casi ne avrebbero inficiato il giudizio.
Tolte queste arnose questioni che definirei quanto più emozionali, dal punto di vista della scrittura l'album è ben confezionato, basta vedere come viene gestito il passaggio dall'intro alla prima strofa in "La lente Dell' Odio", con quello stacco apparentemente improvviso, preannunciato in realtà per diverse battute dalla seconda chitarra, inserita nel mix tra basso e batteria in modo da non attirare l'attenzione, creando così un subdolo continuo a legare le due parti. E di queste intuizioni ne è pieno l'album, spesso sfruttando il basso come traino e stasi, ad imprigionare riff ossessivi per scaricarli negli stacchi successivi.
Saranno forse queste le ragioni di quella mancanza di dinamica nell'ascolto? Dopo ripetuti ascolti potrei quasi affermare che questo eccesso di zelo da parte del comparto strumentale finisca in parte a castrare anche un cantato interessante, pieno, grosso e corposo, ma flebile e debole quando l'occasione lo richiede ("Greta"), pr tornare matematicamente precisa solo quando non può farsi altrimenti ("La Canzone Del Sole").
Nell'insieme, tolti i fisiologici problemi di sorta, dopo diverse ore di ascolto si può davvero apprezzare un'invidiabile sicurezza nell'impostazione, soprattutto se si pensa che la band ha all'attivo nulla più che un demo, oltre a questo album. Non ci si trova davanti ad una di quelle band che non sanno dove sbattere il naso. È chiaro che, pur cadendo in qualche faciloneria stilistica, lo facciano consciamente per sottrarre alla somma finale delle parti una certa asprezza, così da ammorbidire il tutto, riportandolo ad una visione più comune del linguaggio musicale, legandolo ancora una volta a quel volere di una melodia rassicurante che cerca chi, volente o nolente, non riesce a fare a meno di un qualche suo luogo ameno.
Però ci si lascia trascinare dal riff di "DMA".
Però quel single coil nella chitarra di "Trieste (La Casa Vuota)" ci sta da Dio.
Però se si va vocalmente troppo sul pesante il confronto con la concorrenza non sempre regge.
Però ad averne di band che partono con un risultato del genere...