Reperti: Koneskin - Liberty Place

Ebbene si, siamo tornati, e lo facciamo nel migliore dei modi, riesumando il figlio  a cui più tengo: "Reperti".
Come è facile immaginare la rubrica è rimasta per diversi mesi soffocata tra lockdown e restrizioni varie, ma chi non muore si rivede, dico bene?  Ecco che, grazie ad un allentamento generale e la ripresa dei mercati all'aperto, qualche nuovo oggetto d'inchiesta viene fuori.
Nonostante una prima stesura andata in fumo per colpa dell'editor di testo di Blogger si torna allo scoperto, cercando di restituire a questa piccola gemma la gloria che si spetta.

Koneskin Liberty Place Cover
Trovato, come gran parte delle uscite di questa rubrica, al Mercatino di Peveragno, schiacciato in un raccoglitore tra qualche compilation di liscio e della musica classica, il suo cardboard non attirava sicuramente l'attenzione e, no non fosse stato per quella copertina, con quella maschera che ricordava Aku Aku di Crash, questo EP sarebbe rimasto lì dov'era.
"Koneskin", questo il nome dato al progetto di Sergio Ponti, Gabriele Zoccolane e Feryanto Demichelis, che sforna, a due anni dalla sua nascita, "Liberty Place". 37 minuti di musica spalmati su 2 suite piuttosto lunghe, la prima delle quali viene suddivisa in 3 movimenti, ed una canzone invece più classica.
È un particolare apparentemente insignificante, quello di dividere in tracce distinte le varie parti del primo lavoro, ma narra anch'esso la verità di un gruppo che si rivelerà estremamente onesto, tanto nelle intenzioni quanto, poi, nella scrittura dei temi. Non ci prendono in giro costruendo canzoni lunghissime che si rivelano poi dei taglia e cuci, come spesso capita di sentire in molte produzioni progressive, bensì spezza in prima istanza la narrazione in tre atti a se stanti, che condivideranno una certa linearità tematica pur distinti in maniera netta.

Ma, esattamente, cosa abbiamo tra le mani?
Beh, volessimo parlare per generi, sicuramente tireremmo in ballo l'ambient, il progressive, forse del rock influenzato da qualche intrusione drone e, perchè no, post rock.
Non è tutto chiaro fin dal primo momento, però. 
Al primo ascolto la natura quasi enciclica del lavoro potrebbe far storcere il naso all'ascoltatore medio ma è qui, passati i primi minuti che ci si rende conto di  come in realtà si sta assistendo ad una continua evoluzione della parola musicale, del discorso che si fa opera, slegandosi dalla necessità di un narratore per poter diventare natura e, come in uno splendido gioco, trascendere a prima ed unica protagonista, portando con se una dottrina da memorizzare in ogni dettaglio.
Per un'impresa tanto impossibile quanto coraggiosa come questa serve avere una base solida e sicura, tessuta con cura maniacale, ma che non si esaurisca alla prima ripetizione.
"To", la prima traccia, è ottima  per questo arnoso compito. Raccogliendo le forze da una base elettronica e minimal, lo slancio espressivo si concretizza in una chitarra elettrica estremamente saturata che, con una linea difficilmente asseribile al classico riff rock insiste nel non cercare una conclusione per la frase appena iniziata, riuscendo, grazie a un buono studio degli intervalli armonici, a scaricare il proprio bagaglio emozionale in quello che sarà poi il vero train de vie delle canzoni a venire. Il vero valore che si riscontra in tutto il lavoro è quindi presto detto: la calma, la possibilità di far si che ogni elemento riesca ad evolversi a suo modo, senza lasciare discorsi in sospeso ma anche senza  tirare per le lunghe soluzioni che potrebbero risultare stucchevoli se esasperate. Si digerisce in questo modo l'irruzione sul palco di chitarre, tastiere e voci , altalenandosi con diletto tra accenti violenti e una calma riflessiva.
In questo punto del discorso arriva la seconda parte dell'opera, "Fall". Finito il pathos del finale di "To", torniamo nuovamente ad un ambiente calmo, intimo, dove la voce, ora vera protagonista, si fa espande tra il cammino lento di una chitarra ed un piano accennando, solo nel finale, un piglio più rock seppur, anch'esso, legato a doppio filo a tonalità minori e suoni scuri, collegandosi così perfettamente alla sequenza di piano in apertura di "Apart", terzo ed ultimo componimento di questa prima metà dell'opera.
Qua le due anime decidono di fondersi, intersecandosi più volte per dar vita a un finale molto più heavy, forse più classico, ma non per questo di minor valore, perchè ancora una volta intriso di quell'emotività tanto ricercata e capace di rendere godibile ogni spaccato che si propone all'ascolto .
Il vero lato B di questo disco si propone ora con le ultime due tracce. Tornando su stilemi più legati alla normale visione della musica come canzone, con i suoi dogmi e i suoi schemi, la band regala in "Velvet Starry Eye",delle ottime impressioni per quanto riguarda la struttura, per come sintonizza sulle stesse frequenze le intenzioni di un sintetizzatore e di una chitarra nel portare a termine lo stesso risultato sebbene su diversi registri. Dove il lavoro di basso si articola grazie a lunghi fraseggi, suoni quasi ambientali e minimal, le partiture di chitarra e batteria scorrono sotto la voce del cantante che solo ora decide di farsi vero protagonista, spalleggiata da accordi dissonanti, ritmi dispari e un mood generale, creato dalla commistione di tutte le parti, spicca fuori dal mix, colpendo il bersaglio come raramente accade.
La pausa data da questo pezzo serve solo a farci recuperare un po' l'attenzione, che dopo 20 minuti di suite potrebbe vacillare, in attesa del gran finale.
"Maya, Fer Au D'Sol", 12 minuti di calma, di quiete greve e romantica, passi lievi in una poetica dal sapore di divertisment. Un finale lieto e malincomico, la naturale conclusione di tutto il lavoro, difficilmente collocabile in una concezione da album, ma anche discostato dal concept puro. Pare il tutto, col finire di questi 3 pezzi, un'entità unica, le cui parti, se separate, perderebbero di potenza..
È questo il vero punto di forza dell' EP. Tralasciando ogni discorso sulla scrittura e sulla composizione, dimenticandoci della produzione e della qualità sonora, quello che resta è il bagaglio emozionale che un simile lavoro si porta con se. Un ottimo album d'ambiente per quelle serate autunnali, dove la nebbia sostituisce l'orizzonte prima di diventar brina e la sola luce nella stanza arriva dalla legna che arde nel caminetto già dalle quattro.

Koneskin band photo

Se il materiale in questione lascia sinceramente soddisfatti e la data di pubblicazione non è poi così lontana, come fa un EP del 2014 ad essere già un reperto?
La risposta è in realtà tanto veloce quanto triste: la fine.
Gli ultimi eventi di cui troviamo traccia e a cui hanno presenziato si riferiscono al 2015, dopodichè la fine. Pochi articoli online, pochi ascolti su Spotify, giusto un paio di video su Youtube e, la cosa peggiore di tutte, nessun fan attivo.
Gli unici che sembravano davvero credere in loro erano quelli della redazione di "Prog", tant'è  che il miglior articolo che possiate trovare sul progetto "Koneskin" è proprio sul loro sito, ma non solo.
Spulciando Discogs in cerca di qualsiasi appiglio viene fuori che la loro prima comparsa al di fuori del panorama indipendente è avvenuta su "P41: The Twilight Zone", compilation allegata proprio alla rivista "Prog", in cui fa capolino, a traccia 6, "Apart", descritto come terzo movimento della composizione "To Fall Apart".
È evidente allora che un minimo di interesse nel far conoscere questi ragazzi e farli uscire da un sistema di tour stabili provinciali, ma evidentemente qualcosa andò storto.
Tolte possibili complicazioni interpersonali tra i membri della band ed escludendo la difficoltà di trovare il tempo da dedicare al progetto, dato che tutti i musicisti coinvolti sono dei professionisti, l'unico elemento che mi sento di incriminare come possibile causa della loro caduta sia forse la stessa risorsa di cui si è cibata nella sua corta vita: la nicchia.
Croce e delizia di questo trio è stato probabilmente il loro aver puntato troppo sugli appassionati. Chiunque si ritrovi a far parte di una comunity di qualsiasi tipo sa bene come sia facile incappare in comportamenti di esclusivismo, manifesto spesso nel  non voler contagiare qualsivoglia ipotetico ideale, tanto quanto nel tenersi stretto ogni elemento di valore, nel timore, forse, di un imbastardimento delle forme.
Resta sotterrata così una band geniale, sotto quelle poche citazioni degli amanti del settore, concerti quasi privati nei soliti club e le scelte forse sbagliate della rivista a cui si erano affidati, genuinamente convinta di avere un potenziale maggiore di quanto è risultato essere.
Il loro profilo twitter rivela un album in lavorazione nel 2017 ma apparentemente mai uscito. Chissà, un giorno... 


Prima di chiudere definitivamente questo articolo volevo solo scusarmi per la mancanza di aggiornamenti regolari sia sul blog che sui social, ma tutto ciò che vedete per me è poco più di un passatempo e beh, quando il tempo non c'è sicuramente non lo si può creare. Spero, prima di dicembre, di riuscire a risolvere diverse questioni che sono rimaste in sospeso così da poter tornare su queste pagine con maggiore costanza, aggiornando le foto della mia collezione e magari aggiungendo qualche testo nella sezione "Lyrics". 
Molte case editrici ed etichette più o meno indipendenti in questi mesi hanno iniziato a mandarmi materiale promozionale che mi impegnerò a portarvi in qualche modo, dilazionato a dismisura e con metodologie ancora da vedere.
Buone intenzioni come a capodanno quindi, vediamo se riesco ad essere di parola.

Come Una Pagina Di Rumore

Gnamm - Split Beelzebeat / Cibo


CIBO BEELZEBEAT SPLIT COVER


Io c'ero! Questa volta posso dirlo, ero lì quando l'idea di questo disco veniva a formarsi, in quell'ignoranza party 4.5 dello scorso anno. Se i "Cibo" sono sulla scena ormai da anni e non hanno bisogno di presentazioni, tra collaborazioni con etichette come la INRI e 16 anni di carriera alle spalle, per i "Beelzebeat" un minimo di introduzione è d'obbligo. Prendete i "Demented Are Go", dategli da bere tutto quello che avete in casa (detersivo compreso), portateli a Padova e lasciateli correre in macchina finchè non collassano.
Rockablilly portato all'estremo, grind tendente al gore e tanto divertimento, sono pochi e semplici gli elementi di questo gruppo, testimoni dal 2017 di una genuina voglia di far musica senza prendersi sul serio ma mettendoci comunque la testa.


CIBO BAND FORMAZIONE 2020
Se avete già letto la mia recensione del loro precedente album su  www.tadcarecords.org e vi siete innamorati di tale modo di fare, con questo piccolo e parziale ritorno alle origini potreste trovarvi un tantino confusi o contrariati. Ricordandosi  dei tempi di "Appetibile" e "Ignorante", i nostri fanno un passo indietro rispetto a "Capolavoro",  cambiano formazione ed accelerano per recuperare le posizioni perse. La formula torna ad essere il loro grind scanzonato dei primi tempi, le chitarre dal tono leggero perdono un po' di distorsione, interrompendo con il loro overdrive le sferzate del resto del gruppo. Le radici dei testi restano sempre le stesse, goliardici e pungenti, ora si focalizzano su alcune realtà sociali pseudo elitaristiche nate con un intenti nobili poi sfociati in estremismi idioti e ciechi .
"Transustanziazione" apre il lato C (avete capito bene, non abbiamo il lato A ma solo il B di "Beelzebeat" ed il C di "Cibo"... avete capito il giochino? sono proprio dei burloni), punzecchiando tutti quei credenti che, con la convinzione di trovarsi dalla parte giusta della staccionata, si elevano sugli altri convinti di agire in funzione di un bene superiore. Nel concludersi con "Sul Mio Tagliere" i loro occhi cadono su tutti i vegan dell'ultim'ora facendo finire la canzone in quel calderone dove già troviamo altri esempi, anche nella stessa scena torinese.
Questo ritorno al passato è riuscito allora? Si e no. Se da un lato lo stile è quello giusto, i ritmi spingono quanto serve, la cattiveria arriva e gli intermezzi presi ora dai discorsi di Ratzinger ,ora da qualche gioco a premi di Mike Buongiorno (anche se il dietro le quinte con Antonella Elia sarebbe stato ancora meglio) colgono il segno, quanto viene detto non fa gridare al miracolo. 
Un'ottima forma per un contenuto flebile quindi., ma  in fondo non ci si può aspettare dialoghi platonici, inutilizzabili se sommersi da urla e growl. 
Le loro composizioni comunque stanno  cambiando, posizionandosi come il risultato tra il peridodo "Capolavoro" ed "Ignorante", sfociando in un caos studiato, nel quale ogni passaggio non è lasciato al caso anche se con qualche lungaggine qua è la non degna di nota. Da notare in questo frangente come la prima traccia sia di 4 minuti e rotti, quasi un'epopea considerando il genere.


BEELZEBEAT BANDI "Beelzebeat," sull'altro lato, sono di tutt'altra natura. Il loro Grindabilly non vuole punzecchiare o far riflettere, non si cercano evoluzioni forzate e balzi stilistici, l'unico obiettivo è divertire nel modo più genuino possibile.
Il contrabbasso trascina riff rock' n' roll di chitarra che, tra grida di feedback e volteggi da sala da ballo, aleggiano su un lavoro di batteria notevole, coinvolta sia nelle parti groove sia dove il blast beat vuole spingere i cori nei ritornelli.
È in questo frangente che troviamo un gruppo intento a sfruttare il poco spazio a disposizione sul 7" per crearsi un antheam, senza rischiare di perderlo all'interno di un album, proclamando in questo modo "Born To Loose, Live To Grind" il motto di questo piccolo capitolo dscografico.  

Come in quel 18 maggio il lavoro svolto da questi ragazzi mi sorprende per naturalezza e leggerezza, per come tutto risulti casereccio come cucina del nonna... o del vino del nonno in questo caso... Ed è alcool, aah che bello l'alcool, l'ingrediente principale di tutto il loro sound, ne è intriso  fino al midollo. Dai titoli, alle canzoni fino al biascicare della voce, tutto sa di Veneto, di pasta e fasoi e di Gretsch. Difficile pensare ad una serata con loro che non finisca ad intonare tutti insieme (o almeno con chi è riuscito ad arrivare fino alla fine) "We are just a bunch of loosers!We are just a bunch of loosers!"

A livello produttivo abbiamo ancora un po' di disparità. Sebbene entrambi i gruppi godano tutto sommato di una buona registrazione, i "Cibo" spiccano per pulizia, riuscendo a restituire un ambiente molto comodo e coinvolgente, senza i tipici problemi di produzioni con molti elementi in scena. La parte dei "Beelzebeat", d'altro canto,  pare avere un po' di problemi con la gestione del contrabasso che, forse per una questione di timbro, fa fatica ad inserirsi nel mix, costringendo ad intervenire su toni e volumi con il risultato di trovarsi in certi momenti un' esasperazione di basse frequenze, madri di un effetto nasale piuttosto ingombrante e a volte leggermente fastidioso
.
Conclusioni? Una grande pacca sulla spalla ai "Beelzebeat" che, capito il loro punto di forza, non vogliono strafare e cercano di affinare la tecnica, perfezionando la formula e mettendo in chiaro gli ingredienti fin da subito.
Sufficienza larga per i "Cibo" che questa volta non prendono il centro per poco, forse colpa della nuova, in parte vecchia, formazione non ancora perfettamente amalgamata o, forse, per la loro voglia di non ripetersi che si manifesta in un'inconsistenza di risultati tra le un'uscita.

P.S. Tecnicamente per i "Cibo" ci sarebbe da parlare anche di "Ciao" ma non lo considero parte del disco perchè non presente sul 7".

Voleste acquistare il disco ecco un po' di link utili:
 Cibo Bandcamp -> shorturl.at/eiAJR
Beelzebeat Bandcamp -> shorturl.at/ajlO3

Mentre Tutto Cambia: Ascolti da Quarantena


Una piccola premessa è doverosa... 
Questo articolo era inizialmente concepito come piccola riflessione, a fronte dell'allentamento del lockdown, su come una situazione simile abbia modificato più o meno artificialmente il mio approccio ed il mio gusto musicale. Purtroppo e per fortuna, però, con la diminuzione delle restrizioni torna anche il lavoro, con turni settimanali e sempre meno tempo libero. Aggiungiamo a questo che il mio secondo lavoro, quello del liutaio, ha avuto una leggera impennata e che quelle bellissime persone della Isiline non sono in grado di fornirti il servizio che paghi profumatamente ed ecco come il disegno di un articolo che doveva uscire più di un mese fa  si delinea nettamente in quelle che sono poche frasi scritte nei rari 10 minuti liberi sparsi quà e là, frammentati nelle poche giornate in cui l'universo decideva di volgere a mio favore.
Risulterò quindi un po' retrogrado? Forse.
Ripeterò cose già dette da altri? Quasi di sicuro, ma non mi interessa.
Certamente non farò i numeri che avrei fatto un mese fa' e non importa, come articolo è stato il più sofferto, anche se non necessariamente il più impegnativo, ed è per questo che non lo lascerò sparso tra note e spunti scritti quà e là.
Sono tempi un po' del cazzo, lo so,. ma ne usciremo....
Già che ci siamo voglio anche rassicurarvi dicendovi che arriveranno presto, tempo permettendo, diverse recensioni in collaborazione con etichette o band indipendenti che hanno deciso di farmi ascoltare i loro lavori in anteprima. 

Ci siamo quasi, con le dovute restrizioni dal 18 si potrà tonare ad una certa normalità e a fronte di ciò è quasi obbligatori domandarsi come si siano trascorsi questi due mesi e come interfacciarsi alla nuova, vecchia, diversa realtà
Questi giorni interminabili chiusi in casa ti segnano, la convivenza forzata con se stessi e con i propri pensieri cambia, forse evolvendolo, il nostro approccio verso i conviventi e verso il mondo.
È esattamente in questo ambiente emotivo che anche i miei ascolti mutano, lasciando da parte ogni elemento di leggerezza e privilegiando ogni pulsione dalla parvenza propositiva ed istintiva. Naufrago così su lidi tanto belli quanto scomodi, spoglio da ogni riferimento conosciuto come un coraggioso avventuriero del proprio limite. 
Accade allora che da una tragedia nasca una spinta costruttiva , nel mio caso data dalla perdita di Genesis P-Orrdige e dal postumo interesse sulla sua figura (sulle sue figure?). Un avvenimento simile infatti  ha portato un magazine di spessore quale Blow-Up a dedicarle 20 pagine di approfondimenti fitti sulla vita e sulla poetica. Si apre così un nuovo mondo fatto di industrial, british hard pop, acid house ed arte performativa, per  la quale mi ritrovo non solo sprovvisto di strumenti analitici efficienti ma anche di punti di riferimento veri e propri per poterne esacerbare i contenuti.
Per chi, come me, non ha vissuto in prima persona certi momenti storici, che non ha conosciuto la mail art e vive in ciò che il movimento industrial ha lasciato, si trova ora a discostarsi dalla convinzione che industrial sia la tendenza di qualche metallaro tedesco nel  proporre ridondanze martellanti con suoni artificiali e minimal, scoprendo concetti ben più strutturati e profondi, quasi esuli dal discorso musicale, sul quale poggiano per una questione stilistica più che concettuale.
Trascinato così da suggestioni grevi e ritmi rarefatti, alienato un po' dalla reclusione forzata e un po' dalla ricerca di nuovi orizzonti, casco di petto sugli "Acid Mothers Temple & The Melting Paraiso UFO", ritrovandomi di fronte a quell'uscita protagonista anche del record store day di quest'anno, "Nam Myo Ho Ren Ge Kyo". Ascolti serali e solitari da cui è impossibile staccarsi, questi militanti della psichedelia moderna trovano il loro contraltare nei tedeschi "Bohren & Der Club Of Gore", già protagonisti del blog e che, eccezione fatta per l' ultimo lavoro, conosco molto bene. Trovano in questo modo un posto nelle ore tarde ritmi lenti e richiami ancestrali , a voler dare la buonanotte ad un mondo che, ora, può davvero permettersi di riposare in quel silenzio che mancava da tempi immemori.
Cedono il passo i punk, privati della rabbia di cui si alimentano, persa nella noia di giornate monotone, in cui i pochi spunti di iracondia ancora una volta volgono verso la scoperta. Arriva proprio in queste rare occasione la piccola parentesi dedicata ai "Depraved", band power violence californiana attiva da 4 anni e conosciuta qui in Italia grazie alla collaborazione con l'etichetta "Grindpromotion", curatrice di un paio di loro uscite. Essendo comunque una parentesi lampo viene a spegnersi piuttosto in fretta lasciando spazio a qualcosa di ben'altra caratura. Fuori dalle nostre porte il caldo inizia ad ardere i primi campi e l'assenza del classico rumore di pneumatici sull'asfalto richiama uno scenario desertico che solo pochi possono, e devono,  prendersi il compito di attraversare. Da questo scenario desertico deriva la spasmodica ricerca somatizzatrice di suoni aridi e lontani, figli di un panorama  geografico e culturale estraneo alla nostra abituale concezione della musica. Torna quindi di prepotenza quanto già scoperto intorno a gennaio, tutto quel movimento nato nella zona subsahariana in cui ,da  meno di una decina di anni a questa parte, vengono scovati talenti inauditi, dotati di un talento esecutivo ed una naturalezza nella scrittura notevole, legata a doppio filo a quel deserto che conoscono e sanno come affrontare. L'enorme successo di Mdou Moctar, forse il primo scoperto dalla Sahel Sound, porta così a focalizzare l'attenzione su altri artisti simili come Bombino o Tinariwen, aprendo le porte ad un sottobosco di artisti degni di essere riconosciuti tra quelli che dovrebbero essere i grandi di questa epoca. Da questa volata sui deserti gli orizzonti si espandono per fondersi dove questo viaggio ebbe inizio, quella musica elettronica prima industrial è ora strozzata dalla povertà di mezzi e trasformata in un calvario di hammond elettronico su basi minimal a16 bit dagli echi  funky.  Si raccolgono grazie all'artista Mamman Sani, nell'antologia "La Musique Électronique Du Niger", delle piccole perle di sperimentazione acerbe e povere di produzione ma ricche di idee e di piglio..
Gli ultimi giorni poi, tra l'ansia del ritorno a lavoro e la paura di mostrarsi trasandati come topi, il collegamento con i brasiliani "Ratos De Porao" viene diretto. Il loro nome è sinonimo da anni di crossover punk/thrash, genere ottimo se si vogliono ricaricare le batterie. Che sia "Seculo Sinistro" o "Carneceria Tropical", che si ritorni alle origini del mito con "Crucificados Pelo Sistema" o "Descanze em Paz" non fa differenza perchè sono tutti album che hanno scritto la storia da quando, con "Brasil", la "Roadrunner" decise di portarli alla vista del mercato mondiale.
Ci siamo, quindi, il cerchio si è chiuso e tutto sta lentamente tornando come prima . In questo discorso, così leggero e sconclusionato, troviamo secondo me una prova di come molto spesso non siamo totali fautori delle nostre scelte, bensì l'ambiente in cui ci troviamo a spostare il nostro gusto e la nostra voglia verso un genere o un artista rispetto ad un altro.
Dando per assodato che quanto detto sia vero è quindi lecito pensare che in questi due mesi qualcosa di nuovo sia nato e no, non parlo di un nuovo genere di concerti  su youtube o di una (non) regia casalinga per i videoclip, bensì di un nuovo movimento, una nuova moda che spazzi via vecchi stilemi visti fin'ora. Qualcosa cambierà, non mi è dato sapere cosa ma la sicurezza c'è. Uno stravolgimento attitudinale obbligatorio così espanso ha fatto e farà scattare in questi giorni di divieti e restrizione una molla nella testa di molti, allontanandoli, si spera, da quello che ad ora stava divenendo un ritorno agli anni '80, con quanto di brutto si portano dietro. Certo, come movimenti di rivolta erano saltati fuori l'hardcore, lo straight edge, il post-punk e tutto il fervore dark/goth nel calderone new wave a contrastare quella tendenza delle major degli artisti usa e getta, del minimalismo nelle produzioni, della dance vuota e, oggi a differenza di allora, della mancanza quasi totale di quelle poche eccezioni degne di nota.
Nell'epoca della trap il posto di quegli "Eurtithmics" o Rick Astley che, nonostante un sound altamente commerciale, riuscivano a portare un contenuto profondo e sfaccettature ricercate in ciò che presentavano. Siamo tornati talmente tanto in quegli anni da rivivere persino lo stesso cambio di supporto ma a parti invertite. Il CD ci sta abbandonando, visto di mal'occhio da quegli audiofili che già dai primi anni dall'uscita sentivano stretta la campionatura a 44,1 Khz, e dalla massa che non ne percepisce più la necessità, tanto da non sentirne la mancanza nelle autoradio di ultima generazione.  Il vinile ritorna come supporto prediletto dagli appassionati e da quella persona su dieci che in casa sua non ha un giradischi (no, quelle scatolette da supermercato non contano). Poi le cassette… Perché nel 2020 la gente vorrebbe ancora delle audiocassette se non come simbolo immobile della forma sopraffatta dalla sostanza, unita, forse, ad un effetto nostalgia?
Dobbiamo forse dare ragione ad Hegel? Davvero nella storia le tragedie si ripetono sempre due volte uguali?Staremo a vedere ma io spero, ancora una volta, di dover dar ragione ad un certo filosofo rosso e convincermi che la tragedia è passata e che ciò che stiamo vedendo sia soltanto una farsa.

Combo! - Due Parole su The Great Magini e The Broad And Beaten Way


Lunedì nella mia casella e-mail sono arrivati due messaggi, entrambi da parte della Rockshots Records. Due link per scaricare altrettanti album e qualche riga di presentazione per ciascuno, nulla di più, nulla di meno. Che fare quindi? Cosa mi significa questa cosa? Vallo a capire... Fatto sta che ormai il materiale ce l'ho quindi tanto vale parlarvene, snellendo un po' le miei solite forme, senza comunque alterare in alcun modo quella che è la mia reale opinione sulle cose.

Kult Of The Skull King - The Great Magini


Ci sono quegli album che segnano il passo ai propri successori, quelli che inciampano ancora prima di partire ed infine tutto ciò che, non essendo né uno né l'altro, sta in mezzo,vero protagonista del mercato discografico.
Ecco "The Great Magini", esordio della band "Kult Of The Skull God" , è esattamente questo. Non si muove da certi schemi sicuri e consolidati nei decenni, non va sempre al punto e per ogni colpo al ferro ne tira uno anche alla botte. Se da un lato sono quindi certo che un amante del rock vecchio stampo, tendente a sonorità più heavy, potrà gioire di questo prodotto in modo genuino, dall'altra il problema arriva quando si raggiunge un pubblico più esigente e più smaliziato, che non si accontenta del compitino ben fatto e si aspetta sempre quel passo in più, quella nota fuori dalla norma. Sarò onesto, non essendo un cultore completo del genere l'enfasi dell'ascolto ad una certo punto si perde, verso la metà dell' album, tra quei due/tre/quattro riempitivi, minando la realtà di un album che sinceramente ha i suoi punti di interesse. Molto buona sicuramente è "Liar", così come la traccia d'apertura "Black Magick" o la mezza ballad "Dead Heroes", tracce lasciate però a loro stesse in mezzo a qualche pezzo di troppo.
Non fraintendetemi ora, se siete amanti del genere ascoltate l' LP e date fiducia al gruppo, ma, se siete delle persone esigenti, date sì una possibilità all'album completo, più che altro per dovere di cronaca, e soffermatevi sui tre singoli sopra citati, giustamente scelti come ambasciatori del lavoro in fase di promozione, capaci anche, perchè no, di finire in qualche playlist spotify da ascoltare durante i viaggi.

Vi lascio qui di seguito ogni link utile per poter tirare le VOSTRE conclusioni e scegliere se, come e in che modo sostenere il neonato progetto di Lord Kalidon, Davide Tavecchia e Joey Amato.

iTUNES / APPLE MUSIC : https://apple.co/2SKFBk4

THE GREAT MAGINI PRE ORDER: http://bit.ly/TheGreatMagini_CD

Per maggiori informazioni visita:





 Kult Of The Skull God - The Grat Magini Album Cover

Sinisthra - The Broad And Beaten Way



Allora, mettiamo subito le cose in chiaro, questo album ha deciso di prendermi per il culo, e di farlo in modo neanche troppo velato.
Partito come un' esperienza gargantuesca ed oscura i nostri sfruttano la seconda parte della suite "Closely Guarded Distance'", seconda traccia dell'album, per cambiare il tiro, rallentare ancora di più le atmosfere, centellinare gli interventi chitarristici e dar maggior enfasi alle tastiere, vere protagoniste di tutto il comparto sonoro. Si apre in questo modo un diverso approccio in grado di arrivare alla fine di queste sei tracce, traghettandoci in mezzo ad un insieme di note sempre più rarefatte, un approccio vocale costantemente lirico e riff statici, fermi come blocchi di marmo. Tolti alcuni dettagli infelici (per citarne uno, l'entrata in scena della chitarra a 9":56' di "Closely Guarded Distance'") il resto dell' album si difende bene, trovando proprio in questa sua instabilità stilistica quel dettaglio che lo differenzia da gran parte della produzione attuale, ultimamente troppo presa dal rincorrere una sorta di gara al rialzo nella complessità della composizione, a discapito del lato emotivo. Proprio della produzione però dobbiamo parlare quando arrivano le note dolenti. Lasciando da parte ogni discorso sulla composizione, talvolta un po' dozzinale ma mai fastidiosamente ridondante, la registrazione risulta davvero troppo approssimativa. Non si riesce a parlare di dinamica, l'entrata in scena della chitarra non restituisce quel "colpo" che dovrebbe, finendo così per adagiarsi stanca sul tessuto musicale sottostante. La voce stessa non risulta dettagliata come dovrebbe, priva di dettaglio, di dinamica e fastidiosamente piatta, prova a enfatizzare certi momenti emotivamente importanti senza riuscirci totalmente, colpa forse anche di un mixaggio che non dona il giusto equilibrio al tutto.
Che dire quindi? Anche questo "The Broad And Beaten Way" , dai finlandesi "Sinisthra", non è un album per tutti ma, a differenza di quanto detto per il lavoro qui a lato, questa volta mi sento di suggerirlo anche a chi non è avvezzo al genere, forte proprio di questa sua natura sempre in bilico tra piglio violento ed atmosfere malinconiche.

Ancora una volta vi lascio qui sotto ogni link riguardo la band e l'album in questione:

Ascolta 'Closely Guarded Distance' ai seguenti link:

DIGITAL (iTunes) ➤ https://bit.ly/Sinisthra_digital




Ringrazio Rockshots Records per la fiducia concessami e chi lo sa... forse ne sentirete ancora parlare su queste pagine in futuro.


Bologna a Mano Armata - Bologna Violenta: Bancarotta Morale


 Bologna Violenta Cover Album Bancarotta MoraleUscito nel peggior periodo possibile e colpito da ritardi di ogni tipo, tra chiusura del pressing plant e spedizioni che non partivano, il nuovo lavoro di "Bologna Violenta" è finalmente tra noi.
Sono passati 15 anni da quel primo CDr  "Bologna Violenta" e molte cose sono cambiate, pur restando sempre le stesse.
"Bancarotta Morale" allora cos'è se non il punto di arrivo (e di ripartenza) di un progetto avanguardistico, già pietra miliare della musica italiana?
Come in una sorta di concept album i nostri raccontano qui 4 storie, drammi grotteschi e bucolici, scandendone i capitoli attraverso le proprie canzoni. I testi non sono presenti e tutto il lavoro di storytelling viene lasciato alle note o, meglio, agli ambienti acustici che queste creano,  liberando sensazioni e accentuando taluni elementi del discorso affrontato. A fronte di ciò diventa allora vero che, se eliminiamo le narrazioni contenute nel booklet o nel fold dell'edizione vinile, si evita l'opera tutta, privata dell'originaria struttura portante. Ecco allora che si comprendono quelle foto in copertina, tanto portatrici di un'estetica passata quanto testimonianze materiali di una realtà difficilmente credibile se semplicemente scritta su qualche libro storico.
Dimenticatevi, a seguito di quanto detto, gli albori del progetto, le su 26 tracce di 26 secondi, scarne, furiose e grezze. Siamo arrivati con questo lavoro alla summa di quanto già presentato in minima parte con "Discordia", evoluto in "Cortina" ed ora presentato in una forma forse non ancora definitiva, ma sicuramente consolidata.
L'introduzione, "Estetica Morale", è un'apertura leggera che espone le chiavi su cui si impernia tutto il lato sonoro dell'album. Violini, bass pedal ed organo armonium creano una melodia che richiama la classica musica folk, contadina forse, utilizzata con diversi approcci a seconda della storia narrata anche se con un atteggiamento ritmico da parte della batteria slegato a questa dialettica austera per restare, lei, fedele alla retorica del blastbeat, degli stacchi violenti e dei drop più heavy.
Come accennato in parte prima bisogna, per poter parlare del lavoro svolto, dividere il discorso in 5 parti, 4 per i racconti ed una per la suite finale.

La prima tripletta di canzoni racconta il percorso di un truffatore che, passando la vita nelle corti nobili di inizio 20° secolo, scappando costantemente dalla legge e dai suoi creditori arrivò a trovare, come ultima via di fuga, la fede per poi fondare una propria scuola, figlia  dicotomica di una vita di truffe ed un finale desiderio di redenzione. In questo primo caso l'approccio si fa diretto, principalmente in maggiore, richiamando una qualche atmosfera regale, tralasciando momentaneamente il bass pedal e mettendo in prima linea il violino spalleggiato dall'armonium che meglio lo indirizza nella sua corsa incessante.

Da qui si passa alla banda Przyssawka. Un gruppo di soggetti davvero poco raccomandabili che, uniti dalla vita da strada, finirono per diventare un'attrazione da baraccone, vestiti con pelli di orso e pagati per farsi foto con i turisti, diventarono un'inusuale quanto scomoda realtà di Oława, in Polonia. Ora la scrittura si focalizza su certe sonorità comuni nell'est europeo. La nota più particolare, se così si può dire, è l'originale utilizzo del delay sull'organo per la traccia "Il Picchiatore" dove questi trilli, che compaiono ora prima essere fagocitati dalla frenesia del tutto, danno un effetto di continuo andirivieni richiamando l'immaginazione proprio a dei pugni scagliatici addosso dai nostri diffusori.

Il prossimo non sarà un raccolto agrodolce come i precedenti, bensì una vera e propria storia di circonvenzione d'incapace, colpevole, quest'ultima, solo di essere figlia di buona casata. Il lavoro di descrizione uditiva dei personaggi si sofferma ora su quella che è la volontà degli stessi nei confronti della vittima, dolce e disillusa come il pezzo d'apertura, "La Sposa", decide di descriverci attraverso un lavoro di violino scarico da ogni intenzione violenta e semplice come la sua controparte umana. Seguono a questa altre composizioni presentanti tratti austeri e malinconici, misti comunque a delle sferzate violente e a degli stacchi veloci capaci di sottolineare quella violenza neanche troppo sottesa nell'animo dei suoi aguzzini.

L'ultimo dei 4 racconti è basato sulla signora Sophie Unschuldig, classica vedova nera che, capace solo di sperperare le proprie ricchezze, ricerca ogni volta un nuovo amante per abbandonarlo quando spoglio di ogni risorsa economica.
Siamo arrivati con questo al capitolo di passaggio, differente da tutto quanto affrontato in precedenza ma ancora inidoneo per esser ricondotto a quanto presente sul lato B .
Non esistono più blast beat, gli strumenti hanno il loro posizionamento nell'ambiente e non si spostano da lì. Dimenticatevi lo scontro sonoro dei temi precedenti e la loro rapsodia, ora tutto gode del suo spazio senza eccedere. Neanche dal secondo minuto in poi, quando si aggiunge alla scena sonora l'organo, viene meno il focus di quanto raccolto fin'ora, mantenendo, di fatto, quella naturale fluidità necessaria proprio in un lavoro caronteo come in questo caso.

Si conclude il lato A e quanto presente sulla seconda facciata differisce totalmente dal resto del progetto.
Nel lato B siamo di fronte ad un suite di quasi 20 minuti, nata da un'improvvisazione all'organo poi riarrangiata e limata per facilitarne la fruizione. Il risultato finale è quello che viene, giustamente, descritto dagli stessi autori come "una sorta di colonna sonora per un flusso di pensiero", dove quest'atmosfera leggera e lenta già presentata da "Sophie Unschuldig" diventa poi un susseguirsi di richiami ora allegri ed ora tetri e claustrofobici.

Il risultato finale, come premesso è ottimo ma non perfetto. Alcuni stacchi di batteria non si fondono perfettamente con il lavoro armonico portante e talvolta quasi distrae l'ascoltatore. Accade anche che, a mio avviso, non sempre il collegamento tra la storia raccontata ed il proprio corrispettivo sonoro non si palesi in modo evidente. Sicuramente un lavoro del genere non è facile dal momento che musica e narrazione non sono elementi semplici da collegare, ancor meno quando si tratta di  avvenimenti così singolari e complessi a livello emotivo, scevri da un pregresso culturale su cui far appoggio. Il livello produttivo poi è davvero particolare. Cupo, con alti fortemente limati e claustrofobico, non patisce comunque la mancanza di dinamica e riesce a non riempire le orecchie dell'ascoltatore con un'infinità di bassi spropositati nonostante talvolta, quando entra in gioco l'organo hammond, la scena tenda a saturarsi di suoni non perfettamente intellegibile.
Ottima poi l'idea di estrarre la suite e porla nel lato B, proprio a sottolineare la differenza con il resto del progetto.Il solo gesto di dover prendere il disco, girarlo e riposizionare la puntina al principio pone l'ascoltatore in un atteggiamento differente, lasciando in un certo senso indietro quanto affrontato fin'ora e preparandolo a qualcosa di diverso che da lì a poco si presterà ad iniziare.

Questo duo, nonostante tutto, sta  facendo scuola, provando a suo modo a tracciare una via e riuscendoci, in un modo dell'altro. A differenza dei lavori precedenti questo è più compatto ed omogeneo, merito forse dell' obbiettivo postosi motivazione portante per dare una direzione chiara al progetto. Sicuramente "Bancarotta Morale" è una novità importante per quanto riguarda  l'avanguardismo tutto ma non solo. Un invito ai musicisti nel non percorrere strade già consolidate, a creare elementi nuovi e discontinui con strumenti non convenzionali o stravolgendone l'approccio, dimenticandosi di come lo strumento musicale stesso sia stato percepito fino ad oggi.
"Bologna Violenta", a fronte di questa uscita, si presenta ancora una volta come una doppietta di menti fuori dagli schemi, un progetto estraneo da logiche di mercato e che davvero cerca di maturare un discorso evolutivo chiaro ed utile, in una qualche misura, allo sviluppo di un arte sempre più assoggettata ad uno schiavismo neo-industriale.